Il giudizio sul film passa inevitabilmente attraverso quello su Vera e quello che Leigh ha voluto veicolare con l'espressione di Imelda Staunton, perché da come si classifica lei dipende la valutazione del resto. Quanto segue è solo una lettura personale, dalla quale ci è impossibile prescindere. Nella sua vita quotidiana mentre scende e sale le scale rivolgendosi sempre a tutti con un «caro»/«cara», Vera Drake somiglia ad una nonna buona fiera della sua bontà e, come alcune nonne buone e fiere, ha anche qualcosa che sa esser sbagliato da mascherare con il tè offerto. Quando la polizia irrompe nella festa in salotto, il suo sguardo chiede incredulo quale sia la sua colpa, ma la conosce già: Vera sa e si vergogna già. E qui è il problema: cosa dovremmo ricavare da ciò nell'ottica sociale evidentemente ricercata? Sul tema dell'aborto non molto, oltre al parallelo che sottolinea le diverse tribolazioni a seconda del ceto, la clinica contro l'esser stesa sul bordo di un asciugamano: le ragazze chiamate alla scelta non sono che pedine anonime che sfilano sotto le mani della protagonista. Quello che Leigh riesce a far davvero bene è, come al solito, elaborare i meccanismi familiari supportato dall'ottimo cast; quando Vera arriva in tribunale a consegnarsi immobile al suo destino, però, lo sguardo intoccabile della Staunton (comunque in una prova di per sé notevole) ha allungato fino a stancare ed esaurito il suo perché. Alla fine, ma anche prima, ci è antipatica.
Voto: **