Outfoxed: Rupert Murdoch's War on Journalism
Robert Greenwald è meno massiccio e personaggio di Michael Moore, ma se cercate pane duro contro l'attuale amministrazione americana, che faccia egregiamente il suo lavoro senza scentrare l'obiettivo, dovete dimenticare Fahrenheit 9/11 e concentrarvi sul documentario di cui vi andiamo a dire. E questo perché, sebbene il titolo parli del canguro australo-anglo-americano, Outfoxed analizza con fredda precisione FoxNews per puntare dritto a Bush Junior. Di fatti, dopo due brevi grafici riassuntivi di ciò che Murdoch possedeva all'inizio della scalata e di quanto possiede ora, si passa subito alle immagini delle cabine elettorali ed ecco che veniamo immersi nell'analisi - svolta da esperti di comunicazione, giornalisti, presidenti di associazioni ed ex-dipendenti Fox (alcuni dei quali con voce modificata fuori campo) - dei meccanismi attraverso i quali la rete all-news "Fair and Balanced", "America's News Room", "We Report, You Decide!" lavora in sinergia con i conservatori americani. E vedersi messe di fronte tutte assieme, elencate con scrupolo, le tecniche delle quali siam pure consci, ma alle quali siamo anche assuefatti, è piuttosto impressionante: le musiche e la grafica da battaglia, la bandiera che sventola orgogliosa, i ritornelli martellanti, gli «Shut up!» di Bill O'Reilly, gli opinionisti stipendiati (quelli conservatori, tutti pezzi grossi tipici mascelloni americani ben in vista, e quelli democratici, vanto per la presunta imparzialità della rete, dal look più dimesso). Tutto visibile ed avvertibile semplicemente sintonizzandosi un giorno qualunque, ma c'è molto di più gustoso: come i memo alla redazione che impostano l'atmosfera e gli argomenti da spingere o da evitare, i toni ed i temi da cavalcare e quelli da sminuire nella giornata; come Carl Cameron, corrispondente dalla campagna presidenziale di Bush la cui moglie frequenta la sorella del Presidente oltre ad essere in prima linea nella stessa campagna, che parla amabilmente di lei in un fuori onda con George W. affabile e con la solita risatona da intelligentone; o come l'inviato in California per il compleanno di Reagan celebrato dalla rete come un evento nazionale mettendo in fortissima difficoltà il poveretto, che ci racconta di aver dovuto abbellire con entusiasmo tutti i suoi collegamenti e servizi basandosi solo sugli unici che erano al memorial a festeggiare l'ex-presidente: ...una scolaresca. L'analisi del linguaggio che del giornalistico perde tutto, con i «Si dice che...», «Alcuni dicono che...» messi lì non per dare una notizia celando la fonte, bensì ad introdurre speculazioni, battutine sul personaggio o sull'argomento democratico di turno; il confine fra cronaca ed opinione che si sfuma fino a trasformare la prima nella seconda, perché le opinioni non sono smentibili; l'approccio fondamentalistico-religioso del «Noi abbiamo ragione, voi torto e non importa cosa dite»; la preparazione, lenta e meticolosa, dell'opinione pubblica alla guerra in Iraq in un crescendo di paure immotivate inculcate mettendo la parola terrorismo in ogni discorso (come ai tempi della guerra fredda era di moda il termine "comunismo"); la notte delle elezioni del 2000, col cugino di Bush a capo della divisione statistica della rete che annuncia il parente come vincitore senza fondamento e tutti gli altri network si mettono in fila dando una spinta alla sua elezione più grande delle schede ricontate e della Corte Suprema; la passata campagna elettorale, con Bush che viaggia orgoglioso, forte ed intrepido e ripreso anche nei più banali discorsi e Kerry bersagliato dai "flip-flop" e preso allegramente in giro per le sue vacanze sulla neve (le vacanze di Bush son di lavoro, invece...) e per il suo "aspetto francese" salutato con dei bei «Bonjour!»; l'attenzione sistematicamente imposta sui temi sociali scottanti, ancora cavalcando le paure collettive, come aborto e matrimoni gay per distogliere dai temi dell'economia - che quando va giù è perché i mercati son preoccupati perché Kerry sale nei sondaggi... - o della guerra che va male; l'esaltazione smodata di ciò che sembra andar bene in quel di Baghdad, con Brit Hume che ha la faccia tosta di venirci a raccontare che, numeri e statistiche alla mano, ha meno probabilità un soldato americano di morire lì che un qualsiasi cittadino californiano di venire ucciso nel suo stato che, neanche a farlo apposta, è grande all'incirca come l'Iraq. Il tutto, rispetto a Moore, più freddo e pauroso perché a parlare non è il simpatico sovrappeso ma, oltre ai tanti intervistati, sono le immagini e le voci di FoxNews, dei suoi stessi volti, montate a raffica e che inchiodano ad una realtà agghiacciante. Quello con Jeremy Glick, figlio di un dipendente della Port Authority morto nel crollo delle due torri eppure ora firmatario di una petizione anti-guerra, a faccia a faccia con Bill O'Reilly, uno dei presentatori più autoritari della tv, è un momento semplicemente gigantesco. Gli ultimi dieci minuti (in un documentario che dura appena 1h17') si allontanano da questi argomenti e allargano la lente all'intero sistema d'informazione americano, che sta tentando di sorpassare Fox sullo stesso campo («Outfox Fox»: se non puoi batterli, unisciti a loro), concentrandosi su voci positive che faccian riflettere ed agire attivamente la gente e gli stessi giornalisti in contrasto, anche espressivo, col resto del documentario. Come dicevamo, se volete far rimanere senza argomenti qualcuno, dovete cercar qui e non altrove. [TV-ZONE]
Voto: ***
Robert Greenwald è meno massiccio e personaggio di Michael Moore, ma se cercate pane duro contro l'attuale amministrazione americana, che faccia egregiamente il suo lavoro senza scentrare l'obiettivo, dovete dimenticare Fahrenheit 9/11 e concentrarvi sul documentario di cui vi andiamo a dire. E questo perché, sebbene il titolo parli del canguro australo-anglo-americano, Outfoxed analizza con fredda precisione FoxNews per puntare dritto a Bush Junior. Di fatti, dopo due brevi grafici riassuntivi di ciò che Murdoch possedeva all'inizio della scalata e di quanto possiede ora, si passa subito alle immagini delle cabine elettorali ed ecco che veniamo immersi nell'analisi - svolta da esperti di comunicazione, giornalisti, presidenti di associazioni ed ex-dipendenti Fox (alcuni dei quali con voce modificata fuori campo) - dei meccanismi attraverso i quali la rete all-news "Fair and Balanced", "America's News Room", "We Report, You Decide!" lavora in sinergia con i conservatori americani. E vedersi messe di fronte tutte assieme, elencate con scrupolo, le tecniche delle quali siam pure consci, ma alle quali siamo anche assuefatti, è piuttosto impressionante: le musiche e la grafica da battaglia, la bandiera che sventola orgogliosa, i ritornelli martellanti, gli «Shut up!» di Bill O'Reilly, gli opinionisti stipendiati (quelli conservatori, tutti pezzi grossi tipici mascelloni americani ben in vista, e quelli democratici, vanto per la presunta imparzialità della rete, dal look più dimesso). Tutto visibile ed avvertibile semplicemente sintonizzandosi un giorno qualunque, ma c'è molto di più gustoso: come i memo alla redazione che impostano l'atmosfera e gli argomenti da spingere o da evitare, i toni ed i temi da cavalcare e quelli da sminuire nella giornata; come Carl Cameron, corrispondente dalla campagna presidenziale di Bush la cui moglie frequenta la sorella del Presidente oltre ad essere in prima linea nella stessa campagna, che parla amabilmente di lei in un fuori onda con George W. affabile e con la solita risatona da intelligentone; o come l'inviato in California per il compleanno di Reagan celebrato dalla rete come un evento nazionale mettendo in fortissima difficoltà il poveretto, che ci racconta di aver dovuto abbellire con entusiasmo tutti i suoi collegamenti e servizi basandosi solo sugli unici che erano al memorial a festeggiare l'ex-presidente: ...una scolaresca. L'analisi del linguaggio che del giornalistico perde tutto, con i «Si dice che...», «Alcuni dicono che...» messi lì non per dare una notizia celando la fonte, bensì ad introdurre speculazioni, battutine sul personaggio o sull'argomento democratico di turno; il confine fra cronaca ed opinione che si sfuma fino a trasformare la prima nella seconda, perché le opinioni non sono smentibili; l'approccio fondamentalistico-religioso del «Noi abbiamo ragione, voi torto e non importa cosa dite»; la preparazione, lenta e meticolosa, dell'opinione pubblica alla guerra in Iraq in un crescendo di paure immotivate inculcate mettendo la parola terrorismo in ogni discorso (come ai tempi della guerra fredda era di moda il termine "comunismo"); la notte delle elezioni del 2000, col cugino di Bush a capo della divisione statistica della rete che annuncia il parente come vincitore senza fondamento e tutti gli altri network si mettono in fila dando una spinta alla sua elezione più grande delle schede ricontate e della Corte Suprema; la passata campagna elettorale, con Bush che viaggia orgoglioso, forte ed intrepido e ripreso anche nei più banali discorsi e Kerry bersagliato dai "flip-flop" e preso allegramente in giro per le sue vacanze sulla neve (le vacanze di Bush son di lavoro, invece...) e per il suo "aspetto francese" salutato con dei bei «Bonjour!»; l'attenzione sistematicamente imposta sui temi sociali scottanti, ancora cavalcando le paure collettive, come aborto e matrimoni gay per distogliere dai temi dell'economia - che quando va giù è perché i mercati son preoccupati perché Kerry sale nei sondaggi... - o della guerra che va male; l'esaltazione smodata di ciò che sembra andar bene in quel di Baghdad, con Brit Hume che ha la faccia tosta di venirci a raccontare che, numeri e statistiche alla mano, ha meno probabilità un soldato americano di morire lì che un qualsiasi cittadino californiano di venire ucciso nel suo stato che, neanche a farlo apposta, è grande all'incirca come l'Iraq. Il tutto, rispetto a Moore, più freddo e pauroso perché a parlare non è il simpatico sovrappeso ma, oltre ai tanti intervistati, sono le immagini e le voci di FoxNews, dei suoi stessi volti, montate a raffica e che inchiodano ad una realtà agghiacciante. Quello con Jeremy Glick, figlio di un dipendente della Port Authority morto nel crollo delle due torri eppure ora firmatario di una petizione anti-guerra, a faccia a faccia con Bill O'Reilly, uno dei presentatori più autoritari della tv, è un momento semplicemente gigantesco. Gli ultimi dieci minuti (in un documentario che dura appena 1h17') si allontanano da questi argomenti e allargano la lente all'intero sistema d'informazione americano, che sta tentando di sorpassare Fox sullo stesso campo («Outfox Fox»: se non puoi batterli, unisciti a loro), concentrandosi su voci positive che faccian riflettere ed agire attivamente la gente e gli stessi giornalisti in contrasto, anche espressivo, col resto del documentario. Come dicevamo, se volete far rimanere senza argomenti qualcuno, dovete cercar qui e non altrove. [TV-ZONE]
Voto: ***
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