Mean Creek rivela subito il suo gioco, semplice fino allo stucchevole: dalla videocamera sottratta che riprende il pestaggio passiamo alla videocamera con gli "amici" sulla barca, in una natura bluastra attorno che guarda essa stessa come a documentare il travaglio adolescenziale, nelle sue varie forme elencate ad arte (il piccolo preso di mira dal bullo, il fratellone protettivo, il ciccione viziato, quello con i papà gay e quello che il papà non ce l'ha più), fino ai dilemmi della colpa dell'innocenza. Si procede per passi calcolati e mandati avanti come un teorema colposamente senza cerchio, tant'è che dopo aver visto i ragazzi ed aver preso atto delle diverse strade che l'interiorizzazione dell'evento prenderà, non molto rimane oltre questa ostentazione in fondo priva di contenuti: dietro la lumaca trafitta dal coltellino c'è molto che ricerca il figurato, ma dietro il figurato un vuoto che, troppo comodamente, nessuno si è impegnato a riempire. E non basta il filmato-testamento finale della futura vittima ad elevare un esercizio di stile che non è né Elephant né, forse più appropriatamente, Il ritorno.
Voto: **