
I film (ed i personaggi) di Verhoeven sono schematici, senza psicologie, espliciti fino a costeggiare (compiacendosene) la violenza e la volgarità; serviti da una messa in scena altrettanto esplicita, fatta di inquadrature elementari (più che essenziali), di fotografia di luce diretta, da film tedesco (la scuola nordeuropea, del resto, è quella).
L'unica cosa che (così ci dicono) viene lasciata nell'ombra, nel cinema di Verhoeven, è la dimensione morale, che come al solito scatena un mondo di discussioni, ora sulla sua possibile misoginia, ora sul suo possibile fascismo.
Il fatto è che Verhoeven è un vecchio volpone, e ormai sa bene come e quando tendere la sua trappola. La sua ambiguità morale, se mai c'è stata, è un meccanismo che gli fa gioco, che ha imparato ad usare, e che spettatori e critici si aspettano per poter rilanciare la polemica. Verhoeven lo sa benissimo, e ci consegna quello che ci aspettiamo di vedere.
Questo film (la vicenda di un'ebrea olandese sul finire della II guerra mondiale, costretta a camminare sul filo tra i nazisti e la non molto più sympathetic resistenza olandese) non si allontana molto dai precedenti, anche se il ritorno in Olanda dopo vent'anni di Hollywood sembra aver fatto bene a Verhoeven: nel senso che come storia d'avventura/azione, il film scorre discretamente (pur con qualche sciattezza di sceneggiatura - e qualcuna molto grossa), meglio delle sue ultime cose americane.
Non lusingherei questo film con alcuna ulteriore considerazione o approfondimento...
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