Beh, hai anche ragione... Non ho voglia di fare un riassunto. Copio e incollo.
Nel suo ultimo film, M. Night Shyamalan si espone a rischi. Decidendo di parlare più esplicitamente di sé stesso e della sua idea di cinema, ha spaventato gli executive della Disney ed è stato costretto a bussare alla porta della Warner. Lady in the Water giunge al culmine di un percorso unitario lungo il quale il regista ha esplorato l'animo umano (e l'umanità) attraverso una serie di interrogativi. Qui combina e riassume, interroga sulla (e spinge alla) necessità di credere: pericolosamente, entra nella sua pellicola e ne approfitta anche per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, andando neanche troppo per il sottile. Per far questo sfrutta un metodo ovvio ma affascinante ed invero irrinunciabile, la fiaba, che continua a catturare le visioni di cineasti (d'obbligo pensare a Burton) e spettatori.
Bryce Dallas Howard (Manderlay) è per la seconda volta il mezzo del cinema di Shyamalan. Ancora una figura femminile, Story, metà sirena e metà ninfa, fa da collegamento fra il reale ed il fantastico, come in The Village collegava due realtà divise da un muro. A trovarla è il protagonista, Cleveland Heep (Paul Giamatti), custode del complesso residenziale The Cove, fuori Philadelphia: nonostante, come detto, Shyamalan decida stavolta di riservarsi un ruolo non di semplice comparsa, è lui a racchiudere i significati esistenziali della pellicola.
Come gli uomini delle precedenti opere, Cleveland vive sotto il peso del proprio passato. Anche lui era un tempo un professionista, un medico, che si è arreso dopo un trauma: di nuovo un nucleo familiare spezzato, un'aggressione violenta, un lutto, una vita che da allora si trascina. E' ancora una volta la fede ad esser chiamata a ripresentarsi attraverso la percezione che il singolo ha di sé stesso, attraverso il modo in cui sceglie di approcciarsi agli altri e alla vita. Story serve principalmente a Cleveland, alter ego di regista e spettatore.
Si ribadisce un altro tema centrale: l'esterno. The Cove è l'ennesimo mondo chiuso, un villaggio (fisico o mentale) chiamato a prender coscienza di ciò che c'è fuori, dopo che per troppo tempo ha smesso (perché se ne è dimenticato o se lo è imposto) di ascoltarlo. La fiaba parla di un connubio spezzato, di fiere spaventose, aquile maestose e scimmie guardiane della legge; come in The Village, c'è un universo umano a suo modo strutturato, con ruoli assegnati e poi ribaltati, che però in questo caso non cova paure ma se ne sbarazza.
Fedele ad un cinema classico o comunque antico, Shyamalan accompagna la ricerca della fede (appassionata ma incerta e non definitiva, figlia di un particolare percorso personale) con la sua solita predilezione per le inquadrature fisse, che indagano personaggi e particolari ambientali per connetterli, velarli e suggerire suspense. Il fuori campo domina la costruzione sintattica: l'inquadratura esclude personaggi ed esseri, sostituiti da voci e suoni, la narrazione fa solo intuire visivamente per affidarsi invece alla parola e all'immaginazione. Le regole del mondo fiabesco vengono spiegate da una vecchietta che parla solo coreano (e la figlia, interpretata da Cindy Cheung, deve quindi tradurre), senza che - tranne per l'introduzione a disegni - ci sia una chiara illustrazione. Come succedeva in Signs, il precedente film cui Lady in the Water più si ispira (vari rimandi: l'acqua, i walkie-talkie, il rastrello/mazza da baseball, l'erba che cela come i campi di grano), alla fine c'è però l'irruzione degli esseri fantastici, di nuovo un tributo all'artigianalità delle pellicole di genere degli anni '50.
La lettura dei segni, metafora per la funzione del racconto, prepara errori di percorso e nuove scoperte: i segni possono esser letti male (e sul loro ribaltamento Shyamalan ha sempre insistito), le persone possono aver ruoli diversi rispetto a quelli logicamente assegnabili. E' un discorso metafilmico e, come sempre, anche umano. Esplicitamente, Shyamalan passa attraverso di esso ad attaccare una critica che del suo cinema, specie negli USA - leggetevi alcune recensioni dei maggiori critici americani, di questo (stroncato con sdegno quasi all'unisono) o di altri, per avere un'idea -, non ha mai capito nulla: uno dei ciechi appartenenti all'ordine sarà bersaglio di spietata (solo poco raffinata, ma comprensibile sfogo) vendetta.
In questa fiaba che quasi tutto racchiude del suo autore, Shyamalan si inserisce personalmente nella catena che collega le azioni ed i destini umani riservandosi il ruolo di annunciatore, di ispirazione e sacrificio/assunzione di responsabilità. Inserisce echi di guerra e la promessa di un futuro presidente messia che vengono lasciati in sospeso ad allargare il discorso oltre le singole storie umane, verso la storia universale. Forse troppo ambizioso, ma apparte ciò Lady in the Water ha il fascino di un mondo, di un'idea arcaica che si allunga sull'uomo moderno e di ogni tempo per descrivere i suoi bisogni profondi come pochi altri al giorno d'oggi sanno fare.
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