Wes Anderson è un autore: dicasi "autore" colui che sa crearsi un mondo riconoscibile e mantenerlo su pellicola. Di fronte all'autore si parano due pericoli: far schifo e/o stancare alla lunga se manca capacità di rinfrescarsi. Siamo al quarto lungometraggio, quindi ormai chi lo detesta dovrebbe aver l'anima in pace: questo film sarà detestabile come gli altri. Dall'altra parte son maturi i tempi per testare la resistenza del giovine. The Life Aquatic parte dalle solite premesse andersoniane, tecniche e narrative, prima fra tutte quella dei personaggi: ognuno ha un suo perché, dominato da un umorismo impassibile, un suo combattimento interiore. Attorno all'oceanografo un tempo glorioso Bill Murray (un altro uomo caduto alla ricerca di sé stesso, ed il migliore che potesse seguire all'altro di Lost in Translation: quest'uomo deve avere un oscar...) troviamo pezzi essenziali della sua vita riflessi nel suo equipaggio (fantastica la prova di Willem Dafoe), in chi vi si aggiunge (Owen Wilson, sempre a fianco di Anderson ma stavolta solo come attore), nella ex-compagna Anjelica Huston e nella reporter Cate Blanchett (gran classe da parte di entrambe). Più decentrati ma ugualmente caratterizzati sono Jeff Goldblum e Michael Gambon. Stavolta, però, l'ambientazione cambia e si fa stralunatamente avventurosa: un immaginario geografico e naturalistico ricostruito totalmente in Italia (anche gli interni: la gigantesca ricostruzione dell'interno del Belafonte, negli studi di Cinecittà), nel quale i pesci sono nello stop-motion di Henry Selick. Una storia di riscatto all'inseguimento della vendetta contro un fantomatico "squalo giaguaro". Il ritmo, dopo essersi inserito nel blando quotidiano del gruppo di decaduti, carbura per piccoli passi, arrivando al punto di svolta dell'assalto dei pirati. Un'opera molto personale ed umana, misurata e curata, insieme luttuosa (si apre e si chiude con due perdite) e positiva: un andare oltre la propria poetica, aggiungendo un altro pezzo nella sua evoluzione. E' un po' quello che nel recente passato possiam dire per Shyamalan e quello che, per contro, non possiam dire dei crescentemente pretenziosi script kaufmaniani.
***½
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