Hai ragione: diciamo qualcosa di sensato su 'sto film--
«Mandamogli una copia del protocollo». The Queen di Stephen Frears dichiara con questa battuta e con le scene che accompagnano i titoli di testa il suo tema.
La regina Elisabetta (Helen Mirren) si sta preparando per incontrare l'appena plebiscitariamente eletto Tony Blair (Michael Sheen, Underworld) per conferirgli l'incarico di primo ministro; la frase è la sua reazione alla notizia, datale dal suo consigliere Robin Janvrin (Roger Allam, V per vendetta), che a Downing Street Blair intende permettere al suo staff di chiamarlo semplicemente Tony.
Il giorno prima, di mattina presto, la regina stava facendosi ritrarre. In posa regale sbirciava i notiziari che raccontavano la giornata elettorale, chiedendosi cosa si provasse a esser parziali. Come potreste non sapere, la regina non può infatti votare; come le fa notare il ritrattista di corte, però, può eleggersi il suo governo.
Negli stessi momenti, Blair e la moglie Cherie (Helen McCrory) arrivano a Buckingham Palace: lei appartiene alla sparuta minoranza inglese che vorrebbe spazzar via la monarchia, lui è il giovane che promette una rivoluzione sociale. Blair minaccia di cambiare tutto, dando persino una costituzione al glorioso regno che non ne ha mai avuto bisogno. Minacciose intenzioni che aveva prima di incontrarla da solo e da primo ministro: ora deve invece realizzare che lui sarà pure stato eletto, ma lei rimane la regina.
In The Queen, ritratto di una regina attraverso le lenti dei giorni della morte di Lady Diana, i due personaggi centrali mettono in pratica la massima di gattopardiana memoria, secondo la quale tutto deve cambiare per rimanere com'è. Il laburista venuto dopo i lunghi anni conservatori è ora accomunato nel peso del potere alla sovrana: si prepara a diventare il leader di sinistra più conservatore del continente. Elisabetta rispetta il cerimoniale, lo difende secondo quanto ha assimilato da anni di reggenza, ma deve gettarlo completamente alle ortiche in risposta ad un tumulto di commozione di folla e stampa.
Per la regina il mondo è cambiato. Sempre nei rivelatori minuti iniziali, il nobile e paziente lavoro dedicato al ritratto viene subito giustapposto alla velocità con la quale televisione (e poi tabloid) dipingono gli avvenimenti presenti. Il film mostra il lento, misurato ma sofferto avvicinarsi della regnante alla comprensione di questo mutamento, alla graduale cessione di un po' del regale contegno e dell'etichetta per continuare a servire il suo popolo, mentre il primo ministro che la spinge a farlo comprende sempre più la sua posizione.
Frears non sceglie di fare una biografia, allo stesso modo in cui non l'ha fatto Sofia Coppola nel suo Marie Antoinette. Al contrario di Maria Antonietta, giocatrice non decisiva sullo scacchiere politico, Elisabetta riesce a far rimanere in piedi il regno che rischiava di implodere a causa della sua stessa corruzione. Come la Coppola, Frears utilizza prevalentemente spazi chiusi (interni o tenute private reali) per concentrarsi ed accordarsi col suo personaggio. L'Elisabetta che ne viene fuori si scopre più simile a Diana di quanto non si pensi: come per quest'ultima - e come per Antonietta -, per lei la corte è una prigione. Solo che la regina regnante non può né divorziare come Diana principessa di Galles, né viziarsi come Antonietta semplice sposa del re di Francia. La sua reazione, l'unica che può avere, è stringere i denti negandosi ogni espressione del dolore che non sia la difesa di ciò che la imprigiona.
La ricostruzione, merito della sceneggiatura premiata a Venezia di Peter Morgan, procura una visione che pur essendo opportunamente piegata ad un'ottica (non acriticamente) umanizzante sa bilanciare precisione e misura con pochi momenti selezionati di emozione. La metafora del cervo, ripresa in due parti (la prima delle quali di grande bellezza ed empatia), ed il mazzo di fiori regalato dalla bambina nella folla rivelano la scelta di sbilanciarsi, di fornire una visione sì verosimile (funzionale in questo senso anche l'uso del materiale d'archivio) ma anche spregiudicata.
Dopo la Coppa Volpi, Helen Mirren si avvia ad esser premiata con l'Oscar come lo scorso anno Philip Seymour Hoffman per Capote. Per entrambi il lavoro di immedesimazione è maniacale tanto da fornire la sponda a qualche immancabile critica di manierismo, ed è vanificato (più in questo caso) nel doppiaggio. Oltre a quelli già citati, i secondari James Cromwell (il principe Filippo), Alex Jennings (il principe Carlo) e Sylvia Syms (la regina madre) sono impagabili nel dar voce ad una quasi-satira di corte.
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