
Anthony Minghella ci lascia con quello che probabilmente, togliamo il probabilmente, è il suo capolavoro... Una storia molto lineare: Londra, le convergenze parallele di due famiglie, da una parte madre+figlio profughi bosniaci, in bilico tra faticosa e umile integrazione (madre) e illegalità (figlio); dall'altra, una coppia locale in crisi coniugale.
I protagonisti, tutti, sono ognuno in modo diverso alla ricerca di quell'affetto, di quel senso, di quel calore che -in un qualche momento della propria vita che si vorrebbe rintracciare, per risalirvi e ricominciare- sembra sia stato perso per sempre (e del quale la lampada solare di Liv pare un pallido sostituto). Si cercano e si sfuggono, si annusano e si ritraggono.
C'è il tema (pur senza lasciare i toni da commedia malinconica) dell'immigrazione e della crisi coniugale, ma soprattutto si parla di sentimenti di valore universale: la ricerca di se stessi, il desiderio di amare e lasciarsi andare, ma anche la paura di essere ancora delusi, ancora traditi, il freno a mano sempre un po' tirato.
Scritto con un'economicità ed eleganza sorprendenti, con un sottilissimo, pervasivo umorismo inglese; ed i perfetti dialoghi sono serviti da attori in gran forma. E non essendo (solitamente) Minghella un campione assoluto, tutto il film sembra essere il risultato di un generale stato di grazia, uno di quei momenti abbastanza magici in cui tutto sembra funzionare al meglio.
Peccato il finale un po' sbrigativo, in cui si avverte il desiderio di affrettare una chiusura forse un po' troppo conciliante, ed una implicazione che parrebbe di cogliere, a volercela vedere, sulla (im)possibilità dell'integrazione (ma non bisogna dimenticare che siamo sempre nell'ambito della commedia drammatica), cose che in effetti fanno perdere qualcosina ad un film per altri versi (fino a lì) perfetto.
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