Il caso Spotlight
Sorprendente, incredibile, (quasi) perfetto, ha superato ogni mia aspettativa. Ammetto che il tema e i premi vinti mi hanno portato a pensare di trovarmi di fronte al solito dramma/biografia strappaoscar alla 12 anni schiavo, The Imitation Game e vari, insomma film magari anche buoni ma senza una vera identità, che, al di là dei temi importanti che possano trattare, si scordano facilmente e restano una discreta visione e niente più. Qui siamo di fronte ad un opera completamente diversa che Tom McCarthy ha plasmato in modo (quasi) unico, dandogli molto più che una semplice identità. E se quello che mi aspettavo era la solita (interessante) biografia ben fatta sui fatti di pedofilia di Boston con le solite scene (un po' paracule) toccanti e poi via con i piagnoni di bambini, madri, padri e via dicendo mostrando e non mostrando anche scene più forti... ebbene, mi sbagliavo completamente. Si, perchè McCarthy sceglie di non mostrare nulla anzi di lasciare la "vera" vicenda quasi sullo sfondo.
Ci sono tanti modi per approcciare ad un tema del genere. In questo caso il tutto è mostrato dall'interno, dall'interno di uffici giornalistici, tribunali, studi di avvocati, insomma ambientato quasi tutto in interni. Ci troviamo di fronte ad un film "essenzialmente" di inchiesta, di giornalismo, dove anche gli stessi protagonisti hanno un loro senso solo in funzione dell'inchiesta che compiono. Sono infatti personaggi non raccontati, senza un passato, senza un presente, senza emozioni quasi, caratterizzazioni ridotte all'osso, sono solo armi, strumenti che il regista utilizza per rappresentare questa sorprendente inchiesta di un paio di decenni fa. Questi protagonisti sono immersi in questa Boston che definirei "indifferente", fredda, cinica, sempre scura, e anche questo è funzionale all'obbiettivo che voleva raggiungere McCarthy: come detto creare un film completamente d'inchiesta, mettendo al centro unicamente il lavoro di questi instancabili giornalisti e la vicenda che vogliono portare fuori, ma senza mostrarla veramente. Non punta assolutamente all'emozione facile, a ricattare lo spettatore per farlo emozionare, commuovere, o rendere conto di che barbarie vengono perpetrate di nascosto nel mondo. Allo spettatore messe davanti le prove, i fatti, la cronaca, poi sarà ognuno di noi a "leggere" la pellicola e ad interpretare le situazioni come vorrà.
A Mark Ruffalo, strepitoso, è affidato probabilmente il personaggio più complesso, più "caratterizzato": sempre con la testa piegata, blocchetto e penna in mano (come molti), il più animoso e animato, ma non toglie nulla alla freddezza della pellicola. Freddezza e clinico giornalismo che invece troviamo completamente negli altri personaggi, perfetti, funzionali: da Keaton a McAdams, da Slattery a Tucci, fino al più distaccato Marty Baron (Liev Schreiber), ma vero primo motore di tutta l'inchiesta. Accompagnate da una colonna sonora magnifica e inattaccabile, le scene si susseguono con un montaggio che da un ritmo veramente continuo ad un film che risulta comunque sommesso e pacato per tutti i 120 minuti.
Inoltre è una biografia ancor più necessaria di molte altre poichè racconta un qualcosa, un argomento che, per come la penso io, credo sia probabilmente il crimine peggiore che possa accadere e McCarthy riesce a raccontarlo in modo così cinico e freddo, stando attento a non perdersi nelle facili "lacrime" o nei semplici "scandali", dall'inizio alla fine e riuscendo a tenere completamente fuori ogni discorso religioso. Finalmente una biografia sensata, studiata, veramente autoriale, insomma una pellicola imperdibile.
Voto: 8.5