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Digital-Forum Platinum Master
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Quando lunedì scorso, in una torrida mattina romana, Vittorio Colao, amministratore delegato di Rcs, ha detto che bisognerebbe «liberare» 4500 milioni di pubblicità tv per aprire davvero il mercato televisivo italiano, Gina Nieri, membro del cda di Mediaset ma soprattutto grande stratega del gruppo del Biscione in materia di regole e nuovi mercati, è insorta. Ha dato a Colao del dirigista, del nonliberista. Non ha detto che voleva metter le mani nelle tasche di Publitalia, perché è persona troppo accorta per usare slogan. Ma il senso era quello. Quanto a Colao, ha subito detto che parlando di 4500 milioni di euro aveva fatto una cifra a caso, per dare un ordine di grandezza: e sarà stato senz’altro così. Anche se a nessuno, e tanto meno a Nieri, sarà sicuramente sfuggito che quella cifra è esattamente quello che viene stimato essere il fatturato pubblicitario di Rete4.
Comunque sia, lapsus, provocazione o coincidenza, di una cosa si può star abbastanza tranquilli: non dovremmo essere alla riedizione del tormentone della rete di Emilio Fede sul satellite che aveva caratterizzato il quinquennio 1996/2001. Le cose sono andate avanti, lo scenario è cambiato. Almeno nel senso delle possibili vie d’uscita dal pantano del duopolio tv. Il problema, invece, è quello di sempre: la tv funziona con la pubblicità; già oggi in Italia la tv assorbe una quota di risorse pubblicitarie intorno al 60% del totale, ed è una quota molto alta; Rai e Mediaset assieme intercettano oltre il 90% della torta pubblicitaria televisiva. Conclusione, la pubblicità tv in Italia non ha margini di crescita. Quindi l’unico modo perché entrino nuovi soggetti è favorire una ridistribuzione di questa risorsa. Che anch’essa, come le frequenze, inizia ad essere, a suo modo, scarsa.
Ma che cosa ha riaperto il fronte tv? Certo, il nuovo governo, certo anche le dichiarazioni di Paolo Gentiloni sulla necessità di aumentare il tasso di concorrenzialità nel settore, le iniziative che arriveranno in materia di frequenze, di diritti tv dei grandi eventi sportivi; la revisione della Gasparri e le strategie sulle nuove tecnologie. Ma il problema va ben oltre la politica. E questo è il senso della polemica innescata da Colao.
Al di là del cambio di governo il vero dato nuovo è che il digitale terrestre si è quasi fermato. «Dire che abbia esaurito la sua spinta propulsiva è eccessivo - spiega Alessandro Araimo, responsabile del settore media e tv di Value Partners - ma certo ha rallentato. Diciamo che adesso la diffusione ha un tasso di crescita ‘fisiologico’, legato all’effettiva domanda di mercato. Questo accade anche perché il calcio ha già drenato una grossa fetta degli appassionati. Tra Sky e la pay tv prepagata di Mediaset e La7, si può dire che molti degli utenti interessati alle partite siano stati già conquistati. I decoder del digitale terrestre sono intorno a quota 4 milioni, quindi ancora meno del 20% delle famiglie, ma la tendenza è che sarà inevitabile che la televisione digitale, terrestre o satellitare che sia, entri in tutte le case degli italiani».
Questo dato apre un problema. Si era infatti detto: Mediaset e Rai hanno una posizione dominante nell’analogico; ma siccome il digitale terrestre tra poco, nel 2008, cioè in sostanza dopodomani, farà spegnere completamente l’analogico, è inutile intervenire ora su una situazione che si sta per chiudere. E sul digitale dice l’Autorità di Corrado Calabrò non ci sono per ora segnali di analoghe posizioni dominanti. Anche se Mediaset, con l’acquisizione recente delle frequenze di Sport Italia dispone in teoria del 57% delle frequenze digitali attive.
Ma il quadro attuale sconfessa questo percorso. Una rete tv digitale terrestre oggi può al massimo offrire agli inserzionisti pubblicitari un’audience calcolata su un totale di 4 milioni di famiglie; un canale analogico raggiunge invece il totale delle famiglie italiane.
E poi le reti nazionali sono oggi 12; con qualche circuito di reti locali federate si arriva al massimo a 15. I canali in chiaro sul digitale terrestre sono già oggi una trentina. Come ha sintetizzato brillantemente Giorgio Gori, l’ex direttore generale di Canale 5 e oggi produttore di contenuti con la sua Magnolia, quindi uno che di tv se ne intende, «il rapporto tra pubblicità e canali analogici è come spalmare burro su una fetta di pane, quello tra pubblicità e canali digitali terrestri e come spalmare burro sulle briciole». A peggiorare questa immagine c’è poi, come dimostrano i dati dell’ultimo studio firmato dalla ItMedia di Augusto Preta e presentato una decina di giorni fa, che la pubblicità tv sta anche attraversando una fase di rallentamento: e questo potrebbe anche peggiorare il tasso di concentrazione del settore.
Da questo punto di vista lo spostamento in avanti dello switch off, lo spegnimento delle reti analogiche, delle due «regioni campione», Val D’Aosta e Sardegna, annunciato da Paolo Gentiloni, non fa che ratificare uno stato di fatto. C’è però chi calcola che la penetrazione dei decoder nelle due regioni è al 65% e che, aggiungendo i set-top-box satellitari si arriva all’80%: come dire che solo il 20% delle famiglie ha oggi la sola tv analogica. Un calcolo che però non considera il fatto che ogni decoder serve un solo televisore, mentre la media degli apparecchi per famiglia, in Italia, è superiore a due.
Adesso le strade da percorrere sono due: da una parte individuare soluzioni che accelerino il digitale. Dall’altra, visti i tempi più lunghi, intervenire anche sul solo mercato che oggi funziona in quanto tale, producendo cioè risorse: l’analogico.
Sul digitale delle novità sono attese già alla fine della prossima settimana, con il convegno organizzato a Napoli dal Dgtvi. Potrebbero per quella data arrivare annunci di nuove presenze in chiaro sui canali digitali. Si parla di Rai, forse di iniziative che coinvolgeranno anche diverse emittenti locali. E forse anche qualcosa di più. Aumentare l’offerta cosiddetta «free» è a questo punto una necessità per attirare nuovi utenti. Poi, come ha recentemente proposto Alessandro Ovi, si potrebbero istituire meccanismi premianti, come per esempio togliere o diminuire i tetti pubblicitari ai soggetti che passeranno sul digitale, magari spegnendo impianti analogici. E, per chi già gestisce i multiplex, si potrebbero ampliare i «doveri» di dare all’esterno capacità trasmissiva. Oggi il titolare di un multiplex può utilizzarlo per i suoi contenuti al 60%, ospitando per il restante 40% canali di terzi: ma è un meccanismo che non ha funzionato. Gina Nieri si è chiesta perché non ci sia la fila di produttori di contenuti davanti alla porta dei gestori dei multiplex digitali. La risposta è che non ci sono le condizioni economiche perché tra costo del trasporto del segnale e costi di produzione quei canali diano un ritorno economico. Le soluzioni ipotizzate tra gli addetti ai lavori parlano di innalzare quel 40% (su un multiplex possono passare 5 o 6 canali). O, meglio ancora, di introdurre un meccanismo di cosiddetto «accesso disaggregato». E’ una cosa che funziona un po’ come l’acquisto di traffico telefonico, come fanno presto anche in Italia gli operatori mobili virtuali. Non si prende più un singolo canale da un operatore di rete, ma si prenderà capacità di trasporto del segnale, magari da più operatori di rete, con una maggiore autonomia commerciale.
Sull’altro versante, quello delle regole, le possibili leve per far entrare nuovi broadcaster non tanto sulle frequenze, quanto sul mercato della pubblicità, sono diverse. Si va dalla revisione dei tetti (magari associata a controlli e sanzioni meno vaghe di oggi sugli sforamenti) all’impossibilità per un unico soggetto di acquisire diritti multipiattaforma, diventando così una specie di monopolista su certe categorie di contenuti (come sarà Mediaset per il triennio che inizierà nel 2007 sul calcio). E infine (ma è forse il risultato che arriverà per primo, perché qui si è già al lavoro) si arriverà ad una sostanziale riforma dell’Auditel e del meccanismo che rileva gli ascolti. Un passaggio che potrebbe essere fondamentale per attirare sul digitale terrestre perfino la Sky Italia di Murdoch. Che, a certe condizioni, potrebbe essere interessata a diffondere qui dei canali in chiaro. In Gran Bretagna già lo fa.
| Fonte: repubblica.it |
http://www.digital-sat.it/show_new.php?uid=5811
Comunque sia, lapsus, provocazione o coincidenza, di una cosa si può star abbastanza tranquilli: non dovremmo essere alla riedizione del tormentone della rete di Emilio Fede sul satellite che aveva caratterizzato il quinquennio 1996/2001. Le cose sono andate avanti, lo scenario è cambiato. Almeno nel senso delle possibili vie d’uscita dal pantano del duopolio tv. Il problema, invece, è quello di sempre: la tv funziona con la pubblicità; già oggi in Italia la tv assorbe una quota di risorse pubblicitarie intorno al 60% del totale, ed è una quota molto alta; Rai e Mediaset assieme intercettano oltre il 90% della torta pubblicitaria televisiva. Conclusione, la pubblicità tv in Italia non ha margini di crescita. Quindi l’unico modo perché entrino nuovi soggetti è favorire una ridistribuzione di questa risorsa. Che anch’essa, come le frequenze, inizia ad essere, a suo modo, scarsa.
Ma che cosa ha riaperto il fronte tv? Certo, il nuovo governo, certo anche le dichiarazioni di Paolo Gentiloni sulla necessità di aumentare il tasso di concorrenzialità nel settore, le iniziative che arriveranno in materia di frequenze, di diritti tv dei grandi eventi sportivi; la revisione della Gasparri e le strategie sulle nuove tecnologie. Ma il problema va ben oltre la politica. E questo è il senso della polemica innescata da Colao.
Al di là del cambio di governo il vero dato nuovo è che il digitale terrestre si è quasi fermato. «Dire che abbia esaurito la sua spinta propulsiva è eccessivo - spiega Alessandro Araimo, responsabile del settore media e tv di Value Partners - ma certo ha rallentato. Diciamo che adesso la diffusione ha un tasso di crescita ‘fisiologico’, legato all’effettiva domanda di mercato. Questo accade anche perché il calcio ha già drenato una grossa fetta degli appassionati. Tra Sky e la pay tv prepagata di Mediaset e La7, si può dire che molti degli utenti interessati alle partite siano stati già conquistati. I decoder del digitale terrestre sono intorno a quota 4 milioni, quindi ancora meno del 20% delle famiglie, ma la tendenza è che sarà inevitabile che la televisione digitale, terrestre o satellitare che sia, entri in tutte le case degli italiani».
Questo dato apre un problema. Si era infatti detto: Mediaset e Rai hanno una posizione dominante nell’analogico; ma siccome il digitale terrestre tra poco, nel 2008, cioè in sostanza dopodomani, farà spegnere completamente l’analogico, è inutile intervenire ora su una situazione che si sta per chiudere. E sul digitale dice l’Autorità di Corrado Calabrò non ci sono per ora segnali di analoghe posizioni dominanti. Anche se Mediaset, con l’acquisizione recente delle frequenze di Sport Italia dispone in teoria del 57% delle frequenze digitali attive.
Ma il quadro attuale sconfessa questo percorso. Una rete tv digitale terrestre oggi può al massimo offrire agli inserzionisti pubblicitari un’audience calcolata su un totale di 4 milioni di famiglie; un canale analogico raggiunge invece il totale delle famiglie italiane.
E poi le reti nazionali sono oggi 12; con qualche circuito di reti locali federate si arriva al massimo a 15. I canali in chiaro sul digitale terrestre sono già oggi una trentina. Come ha sintetizzato brillantemente Giorgio Gori, l’ex direttore generale di Canale 5 e oggi produttore di contenuti con la sua Magnolia, quindi uno che di tv se ne intende, «il rapporto tra pubblicità e canali analogici è come spalmare burro su una fetta di pane, quello tra pubblicità e canali digitali terrestri e come spalmare burro sulle briciole». A peggiorare questa immagine c’è poi, come dimostrano i dati dell’ultimo studio firmato dalla ItMedia di Augusto Preta e presentato una decina di giorni fa, che la pubblicità tv sta anche attraversando una fase di rallentamento: e questo potrebbe anche peggiorare il tasso di concentrazione del settore.
Da questo punto di vista lo spostamento in avanti dello switch off, lo spegnimento delle reti analogiche, delle due «regioni campione», Val D’Aosta e Sardegna, annunciato da Paolo Gentiloni, non fa che ratificare uno stato di fatto. C’è però chi calcola che la penetrazione dei decoder nelle due regioni è al 65% e che, aggiungendo i set-top-box satellitari si arriva all’80%: come dire che solo il 20% delle famiglie ha oggi la sola tv analogica. Un calcolo che però non considera il fatto che ogni decoder serve un solo televisore, mentre la media degli apparecchi per famiglia, in Italia, è superiore a due.
Adesso le strade da percorrere sono due: da una parte individuare soluzioni che accelerino il digitale. Dall’altra, visti i tempi più lunghi, intervenire anche sul solo mercato che oggi funziona in quanto tale, producendo cioè risorse: l’analogico.
Sul digitale delle novità sono attese già alla fine della prossima settimana, con il convegno organizzato a Napoli dal Dgtvi. Potrebbero per quella data arrivare annunci di nuove presenze in chiaro sui canali digitali. Si parla di Rai, forse di iniziative che coinvolgeranno anche diverse emittenti locali. E forse anche qualcosa di più. Aumentare l’offerta cosiddetta «free» è a questo punto una necessità per attirare nuovi utenti. Poi, come ha recentemente proposto Alessandro Ovi, si potrebbero istituire meccanismi premianti, come per esempio togliere o diminuire i tetti pubblicitari ai soggetti che passeranno sul digitale, magari spegnendo impianti analogici. E, per chi già gestisce i multiplex, si potrebbero ampliare i «doveri» di dare all’esterno capacità trasmissiva. Oggi il titolare di un multiplex può utilizzarlo per i suoi contenuti al 60%, ospitando per il restante 40% canali di terzi: ma è un meccanismo che non ha funzionato. Gina Nieri si è chiesta perché non ci sia la fila di produttori di contenuti davanti alla porta dei gestori dei multiplex digitali. La risposta è che non ci sono le condizioni economiche perché tra costo del trasporto del segnale e costi di produzione quei canali diano un ritorno economico. Le soluzioni ipotizzate tra gli addetti ai lavori parlano di innalzare quel 40% (su un multiplex possono passare 5 o 6 canali). O, meglio ancora, di introdurre un meccanismo di cosiddetto «accesso disaggregato». E’ una cosa che funziona un po’ come l’acquisto di traffico telefonico, come fanno presto anche in Italia gli operatori mobili virtuali. Non si prende più un singolo canale da un operatore di rete, ma si prenderà capacità di trasporto del segnale, magari da più operatori di rete, con una maggiore autonomia commerciale.
Sull’altro versante, quello delle regole, le possibili leve per far entrare nuovi broadcaster non tanto sulle frequenze, quanto sul mercato della pubblicità, sono diverse. Si va dalla revisione dei tetti (magari associata a controlli e sanzioni meno vaghe di oggi sugli sforamenti) all’impossibilità per un unico soggetto di acquisire diritti multipiattaforma, diventando così una specie di monopolista su certe categorie di contenuti (come sarà Mediaset per il triennio che inizierà nel 2007 sul calcio). E infine (ma è forse il risultato che arriverà per primo, perché qui si è già al lavoro) si arriverà ad una sostanziale riforma dell’Auditel e del meccanismo che rileva gli ascolti. Un passaggio che potrebbe essere fondamentale per attirare sul digitale terrestre perfino la Sky Italia di Murdoch. Che, a certe condizioni, potrebbe essere interessata a diffondere qui dei canali in chiaro. In Gran Bretagna già lo fa.
| Fonte: repubblica.it |
http://www.digital-sat.it/show_new.php?uid=5811