
L'enfant del film non è il bambino che viene venduto, è chiaro: l'enfant è Bruno. Delinquentucolo che vive solo nel momento (i giovani d'oggi non sanno pensare al futuro, si sa) tutore del consumismo moderno non supportato da merito, dello sfruttamento minorile, che non ha neppure l'onestà di ricercare l'entrata in un reality show come giustamente fa la maggioranza degli sfaticati italiani suoi compari. Non gli importa di nulla, un bambino (il suo) non vale niente se non qualche migliaio di euro, non si accorge di niente, quello che fa è normale ed è normale che lui se ne freghi. Non gli importa di niente fin quando un altro bambino, quello che sfrutta, non viene beccato: improvvisamente, per la prima volta onesto, gli riporta il motorino assieme alla refurtiva per salvargli il c*lo e farsi sbattere in galera come merita. Poi, in galera, lo vediamo seduto al tavolo con la ragazza che ha messo incinta, diventata matura dopo aver realizzato (ci voleva tanto?) che il padre del figlio è un benemerito c*glione: piange, si è pentito, ha capito, si è redento, può salire in cielo alla fine di questo percorso che sa di divino. Come era logico... L'enfant parla di questo, inconfutabilmente: potete dire che ho dato un po' di colore, ma parla di questo. Non è in sé un film offensivo, né un film brutto perché i Dardenne sanno almeno dirigere. Però mi son dato alle letture e non posso non condividere con voi un senso di fastidio... La mia intelligenza è offesa dalle tante cavolate che ho incrociato, sostenute con linguaggio altezzoso ed inconcludente da molti che consideravano escrementizio il Twentynine Palms del povero Dumont (mille volte più rigoroso e pregnante nella sostanza di questo esercizio verista belga). Ben diretto: come complimento può bastare per un film con un finale da tirare ortaggi contro lo schermo.
Voto: **