Di nuovo sul film di Fincher, di cui ho fresca la visione grazie al magico dvd, per espandere sulla mia
recensione scritta all'uscita, con la quale mi trovo tra l'altro splendidamente d'accordo.
Zodiac non è un film su Zodiac ma sul processo —e probabilmente ancor più sul sistema— che tenta di scovarlo. Gli omicidi del Nostro (o quello che si crede sia il Nostro) si fermano infatti a venticinque minuti dall'inizio, quando entra in scena l'ispettore Toschi di Mark Ruffalo.
Mi citerò:
Zodiac è "la maglia ideale di un incastro". Il film si apre, dopo un'inquadratura aerea sui cieli di Vellejo illuminati dai fuochi del 4 luglio, con una soggettiva dall'interno di una macchina. Mentre, col sottofondo di "Easy to Be Hard", vediamo in successione delle villette in festa, siamo portati a pensare che la soggettiva sia quella del killer che si sta scegliendo le sue vittime. Fin quando la macchina si ferma davanti ad una delle villette, e da questa esce fuori per dirigersi verso la camera un ragazzo; ora la prospettiva cambia, con un controcampo che svela in semi-soggettiva il conducente, una bella ragazza bionda. Lo spaesamento del film è già qui: le geometrie sembrano perfette ed ordinate, ma i dettagli cui guardiamo deviano il punto ed il corso dell'osservazione.
Il ragazzo, sul cui volto l'inquadratura si ferma, è lo stesso che avrà l'ultima inquadratura del film, 22 anni più tardi. Nella sua prima inquadratura la camera, sempre ferma nel breve piano-sequenza d'apertura, è davanti a lui; nell'ultima è defilata da destra, e vari stacchi di montaggio la portano sempre più vicina. In tutto questo tempo, Fincher non ha mai inserito un flashback: gli indizi scorrono uno dopo l'altro con le didascalie che li rendono sempre più inconcludenti.
Ci avviciniamo pezzo per pezzo alla sensazione di aver chiuso il cerchio, ma noi e coloro che investigano finiamo per accartocciarci, non ci è mai permesso di guardare molto oltre i singoli dati sensibili. Stiamo vedendo la de-costruzione di un processo per come si svolge, potendoci basare esclusivamente su prove e testimonianze (il più delle volte su carta): stiamo vedendo qualcosa di più simile alla ricostruzione di un processo giudiziario —scarni dati, piste seguite o abbandonate e supposizioni su di essi—, che non un thriller. Anche il finale, in cui sembra esserci una soluzione, in realtà la irride perché ci dice che, se anche sappiamo chi è il killer, non ci spieghiamo punto per punto tutto quello che è successo.
Zodiac racconta l'impasse di ogni indagine: l'imperfetta e contraddittoria articolazione dei tasselli.
Graysmith (Jake Gyllenhaal) è non a caso l'uomo che rimane alla fine. Entra in scena in maniera più attiva quando le investigazioni sono tutte racchiuse in pile di documenti scritti, da topo da biblioteca, e si mette a studiarle cercando di trovare le connessioni ed i richiami interni. Sta spezzando un codice: cerca di andare da A a B fino a decifrarlo interamente. Quando Paul Avery (Robert Downey Jr.) gli porta la soluzione al primo messaggio cifrato che arriva al Chronicle, Graysmith nota che l'ultima parte non è tradotta: alla fine del film, la traduzione non l'abbiamo avuta.
Il momento forse più bello è il suo appuntamento con Melanie (Chloë Sevigny). Graysmith deve tornare a casa per aspettare una chiamata, e lei si offre di accompagnarlo e stare con lui. Estremamente romantico, allo stesso tempo è fedele all'idea della ricerca come lento ciclo di opportunità. Al contrario della nostra era di telefonia mobile, in
Zodiac i telefoni hanno ancora bisogno della fisicità e tempi lunghi dei fili per funzionare. Sono piccoli ostacoli sulla via della verità, ma sono anche gli unici mezzi per arrivare più vicino. E, in questo caso, ti aiutano a portare Chloë Sevigny a casa.
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